
Scrivere il ‘provato’ della propria perdita è un modo per rielaborare le emozioni e scoprire cosa è lecito attendersi e cosa va tralasciato.
Scrivere, non vuol dire cercare le parole salvifiche per alleviare il dolore, vuol dire manifestare la presenza. Inizialmente la presenza è la certificazione della sofferenza, che gradualmente si trasforma in presenza a se stessi e successivamente in incontro con coloro che si prendono cura di noi: familiari, amici, medici, psicologi.
Scrivendo, si scopre una logica profonda e vitale che passa dalle parole scritte, tinte di emozioni e di domande, alla comprensione di ciò che si prova, come accadimento naturale, fino alla conferma che chi legge è presente con la delicatezza rassicurante del proprio legame.
Chi scrive, ha bisogno di raccontare ciò che prova, di farlo sapere anche in un modo terrifico e creativo, correndo, perché intuisce quanto siano ben più gravi ed inutili i meccanismi depressivi e/o punitivi.
Inizialmente, più si scrive e più aumentano le domande, più si cercano risposte e più aumenta la paura del silenzio. Si ha paura di dimenticare e non trovare più il filo del proprio caro e della propria vita. Ma, più si scrive e più si trovano parole, sempre più precise per descrivere le conseguenze dell’assenza: il vuoto, la propria interiorità, il fragile disvelamento a se stessi.
E con esso però la risalita.
Con la scoperta che si è diventati deboli e fragili, il paradosso della ‘malattia della morte’, si compie: ‘la vita è appesa a un filo e da quel filo di vita si riparte’.
Si riparte dalla responsabilità di sostare nel proprio dolore, riformulando le emozioni; di entrare nuovamente in rapporti di intimità, per ricercare l’autenticità; e il desiderio di esserci per le persone care, con nuove metafore della vita, nuovi comportamenti e azioni interiori: l’assenza non è più una realtà da subire, ma una presenza con la quale interagire.
Si arriva al punto di smettere di scrivere sul diario per camminare su nuovi sentieri che si intrecciano, si, con il passato, con le presenze assenze, ma anche con i progetti ed i ricordi di nuove primavere.
Scrivere, non vuol dire cercare le parole salvifiche per alleviare il dolore, vuol dire manifestare la presenza. Inizialmente la presenza è la certificazione della sofferenza, che gradualmente si trasforma in presenza a se stessi e successivamente in incontro con coloro che si prendono cura di noi: familiari, amici, medici, psicologi.
Scrivendo, si scopre una logica profonda e vitale che passa dalle parole scritte, tinte di emozioni e di domande, alla comprensione di ciò che si prova, come accadimento naturale, fino alla conferma che chi legge è presente con la delicatezza rassicurante del proprio legame.
Chi scrive, ha bisogno di raccontare ciò che prova, di farlo sapere anche in un modo terrifico e creativo, correndo, perché intuisce quanto siano ben più gravi ed inutili i meccanismi depressivi e/o punitivi.
Inizialmente, più si scrive e più aumentano le domande, più si cercano risposte e più aumenta la paura del silenzio. Si ha paura di dimenticare e non trovare più il filo del proprio caro e della propria vita. Ma, più si scrive e più si trovano parole, sempre più precise per descrivere le conseguenze dell’assenza: il vuoto, la propria interiorità, il fragile disvelamento a se stessi.
E con esso però la risalita.
Con la scoperta che si è diventati deboli e fragili, il paradosso della ‘malattia della morte’, si compie: ‘la vita è appesa a un filo e da quel filo di vita si riparte’.
Si riparte dalla responsabilità di sostare nel proprio dolore, riformulando le emozioni; di entrare nuovamente in rapporti di intimità, per ricercare l’autenticità; e il desiderio di esserci per le persone care, con nuove metafore della vita, nuovi comportamenti e azioni interiori: l’assenza non è più una realtà da subire, ma una presenza con la quale interagire.
Si arriva al punto di smettere di scrivere sul diario per camminare su nuovi sentieri che si intrecciano, si, con il passato, con le presenze assenze, ma anche con i progetti ed i ricordi di nuove primavere.