
L’accompagnamento gentile del proprio congiunto alla terra, al profumo dell’aria, alla dolcezza dei ricordi è ostacolata da qualcosa che si agita in profondità: è la rabbia. E la rabbia non va via.
La rabbia agita lo sfondo della propria identità e progettualità. La rabbia orienta i pensieri, i ricordi, i dialoghi e li arrovella con il rimorso, i sensi di colpa e il giudizio.
La rabbia filtra lo sguardo e quello che si vede non piace: l’invidia per l’amico (suo figlio c’è e il mio no!); il giudizio sul compagno (è senza cuore!), sul mondo che fa paura; e sul futuro senza senso. Tutto ciò alimenta una riflessione amara: ‘il congiunto è stato un egoista’.
La rabbia non è andata via e si vorrebbe esprimerla in ginocchio con le mani piene di terra e gli occhi pieni di lacrime, per tirare fuori il demone della solitudine e rimanere esausti ad accarezzare il perdono.
Il perdono non accade perché c’è la rabbia. E non può accadere finché il pensiero non ha decifrato la mappa del dolore di un genitore che scopre nei gesti estremi, un figlio che è centrato su di sé, che sente sé, che protegge sé, incurante di chi rimane; un adulto che accetta l’impotenza di fronte all'egoismo dei gesti estremi; e di un ‘bambino’ che è profondamente turbato, impotente ed arrabbiato.
Emotivamente e psicologicamente un genitore non è pronto a dire: ‘come hai potuto? Come ti sei permesso? Mi hai imbrogliato e preso in giro, sei stato furbo e traditore! Teme di dirle certe cose, ma aleggiano.
Una parte emotiva primitiva, quella del bambino, quella vitale, non può tollerare l’impotenza di gesti e pensieri che occludono la vita e tolgono la speranza dell’accettazione, del perdono e della rinascita. Una parte di noi ha bisogno delle parole per esprimere tutto il dolore dell’abbandono e consentire ai processi più creativi della mente di ritrovare nuovi semi e nuove energie per essere se stessi e pensare a una vita che va avanti.
La rabbia agita lo sfondo della propria identità e progettualità. La rabbia orienta i pensieri, i ricordi, i dialoghi e li arrovella con il rimorso, i sensi di colpa e il giudizio.
La rabbia filtra lo sguardo e quello che si vede non piace: l’invidia per l’amico (suo figlio c’è e il mio no!); il giudizio sul compagno (è senza cuore!), sul mondo che fa paura; e sul futuro senza senso. Tutto ciò alimenta una riflessione amara: ‘il congiunto è stato un egoista’.
La rabbia non è andata via e si vorrebbe esprimerla in ginocchio con le mani piene di terra e gli occhi pieni di lacrime, per tirare fuori il demone della solitudine e rimanere esausti ad accarezzare il perdono.
Il perdono non accade perché c’è la rabbia. E non può accadere finché il pensiero non ha decifrato la mappa del dolore di un genitore che scopre nei gesti estremi, un figlio che è centrato su di sé, che sente sé, che protegge sé, incurante di chi rimane; un adulto che accetta l’impotenza di fronte all'egoismo dei gesti estremi; e di un ‘bambino’ che è profondamente turbato, impotente ed arrabbiato.
Emotivamente e psicologicamente un genitore non è pronto a dire: ‘come hai potuto? Come ti sei permesso? Mi hai imbrogliato e preso in giro, sei stato furbo e traditore! Teme di dirle certe cose, ma aleggiano.
Una parte emotiva primitiva, quella del bambino, quella vitale, non può tollerare l’impotenza di gesti e pensieri che occludono la vita e tolgono la speranza dell’accettazione, del perdono e della rinascita. Una parte di noi ha bisogno delle parole per esprimere tutto il dolore dell’abbandono e consentire ai processi più creativi della mente di ritrovare nuovi semi e nuove energie per essere se stessi e pensare a una vita che va avanti.