
Ci sono schemi relazionali che condizionano profondamente l’esperienza con gli altri. E’ il caso di coloro che vivono intimamente un senso di inadeguatezza e di vergogna nel timore di mostrare apertamente la propria vulnerabilità. Chi presenta queste risposte tende ad essere particolarmente sensibile alle critiche, ai rifiuti o ai rimproveri; è attento a ciò che dice e a ciò che fa, sentendosi insicuro nelle situazioni sociali; si vergogna di quelli che considera i propri difetti, nascosti (come l’aggressività o i desideri sessuali) o manifesti (ad esempio, un aspetto fisico poco attraente o difficoltà nel socializzare) che siano.
Quando si affronta questo argomento con una giovane donna che prova a comprendere cosa renda così complessa e tortuosa la strada di un comportamento potenzialmente seduttivo, scopre alcuni processi interni che la imbrigliano.
Ad esempio, nell’immaginare un ideale percorso di avvicinamento ad un ragazzo, scopre che:
- per iniziare una conversazione l’altro deve essere noto e rassicurante;
- per essere riconosciuto come tale deve esserci una familiarità che parte dall’interno e dalle proprie esperienze precedenti - una pre-immagine tranquillizzante, che però da sola non basta a superare gli ostacoli dell’avvicinamento;
- per parlare con l’altro, deve esserci molta familiarità che ovviamente non si concede al nuovo, chiunque esso sia (un circolo vizioso paralizzante);
- per fare un passo concreto verso il dialogo ipotizza di entrare nel territorio dell’altro e superare i propri resistenti confini privati con normali forme di dialogo e di vicinanza fisica;
- ma, soprattutto, scopre che è nel pensiero che deve accadere qualcosa di importante: non identificare la propria sensibilità come un tratto della personalità, ma come un sintomo, uno stato, uno schema di comportamento, su cui può riflettere, sorridere, rendere duttile e modificabile.
Prima di cadere tra le braccia di una persona, pertanto, debbono accadere tante cose, ma se il primo passo conduce a una naturale camminata nella vita, il secondo conduce alla piena espressione di se stessi.
Quando si affronta questo argomento con una giovane donna che prova a comprendere cosa renda così complessa e tortuosa la strada di un comportamento potenzialmente seduttivo, scopre alcuni processi interni che la imbrigliano.
Ad esempio, nell’immaginare un ideale percorso di avvicinamento ad un ragazzo, scopre che:
- per iniziare una conversazione l’altro deve essere noto e rassicurante;
- per essere riconosciuto come tale deve esserci una familiarità che parte dall’interno e dalle proprie esperienze precedenti - una pre-immagine tranquillizzante, che però da sola non basta a superare gli ostacoli dell’avvicinamento;
- per parlare con l’altro, deve esserci molta familiarità che ovviamente non si concede al nuovo, chiunque esso sia (un circolo vizioso paralizzante);
- per fare un passo concreto verso il dialogo ipotizza di entrare nel territorio dell’altro e superare i propri resistenti confini privati con normali forme di dialogo e di vicinanza fisica;
- ma, soprattutto, scopre che è nel pensiero che deve accadere qualcosa di importante: non identificare la propria sensibilità come un tratto della personalità, ma come un sintomo, uno stato, uno schema di comportamento, su cui può riflettere, sorridere, rendere duttile e modificabile.
Prima di cadere tra le braccia di una persona, pertanto, debbono accadere tante cose, ma se il primo passo conduce a una naturale camminata nella vita, il secondo conduce alla piena espressione di se stessi.