
Aiutare qualcuno e consigliarlo su come risolvere i problemi della vita è una attività meravigliosa che ognuno di noi esercita quotidianamente.
Aiutare qualcuno che si lamenta di essere timido, depresso, impotente o incapace, in modo naif, significa emettere ‘giudizi’ (per esempio diagnosticando che c’è qualcosa di ammalato, di nevrotico, di abnorme, ecc.), dando ‘spiegazioni’ (ipotizzando i motivi del problema), ‘semplificando’ (‘non ci pensare’,‘tra un anno riderai di tutto questo’), ‘consigliando’ (‘dovresti evitare questo e quest’altro’, ‘tenta questo e vedrai che …’). Sono tutte condotte di apparente buon senso.
Per quanto valide possano essere le spiegazioni, i giudizi, i consigli, le offerte di aiuto, non sono quasi mai risolutive per modificare il problema lamentato e soprattutto non responsabilizzano la persona sofferente.
Queste lodevoli attività di ’aiuto’, non responsabilizzano il soggetto da che cosa?
Ad esempio, dall’entrare pienamente nella propria condizione di timido, di depresso, di impotente (che ovviamente il soggetto prova), aiutandolo nel contempo ad accettare e tollerare in pieno la sua situazione, e soprattutto impedendogli di trasferire responsabilità a destra e a manca, compreso colui che consiglia.
Ecco che aiutare qualcuno significa sostenere l’esperienza della sua vergogna, della sua scontentezza, della sua incapacità di essere felice, della sua lotta contro la depressione, della sua condizione di vita, con l’accettazione consapevole di ciò che è.
Lo capisco, non è per niente facile stare nel proprio disagio. Ma non farlo significa rinforzare i conflitti interiori e imbrigliare energie.
Per risolvere il conflitto si deve smettere di combattere con il proprio ‘sintomo’, per cominciare a viverlo, per integrare l’esperienza dolorosa e utilizzare l’energia che si libera per il cambiamento.
Accettare i sentimenti negativi, farli propri, viverli, soffrirli non è un comandamento della religione o della morale, ma un comandamento della ragione.
Non è possibile far sparire i sentimenti. Ce ne possiamo allontanare con il pensiero, ma alla fine perdiamo il contatto con noi stessi e con il nostro nucleo.
Aiutare qualcuno che si lamenta di essere timido, depresso, impotente o incapace, in modo naif, significa emettere ‘giudizi’ (per esempio diagnosticando che c’è qualcosa di ammalato, di nevrotico, di abnorme, ecc.), dando ‘spiegazioni’ (ipotizzando i motivi del problema), ‘semplificando’ (‘non ci pensare’,‘tra un anno riderai di tutto questo’), ‘consigliando’ (‘dovresti evitare questo e quest’altro’, ‘tenta questo e vedrai che …’). Sono tutte condotte di apparente buon senso.
Per quanto valide possano essere le spiegazioni, i giudizi, i consigli, le offerte di aiuto, non sono quasi mai risolutive per modificare il problema lamentato e soprattutto non responsabilizzano la persona sofferente.
Queste lodevoli attività di ’aiuto’, non responsabilizzano il soggetto da che cosa?
Ad esempio, dall’entrare pienamente nella propria condizione di timido, di depresso, di impotente (che ovviamente il soggetto prova), aiutandolo nel contempo ad accettare e tollerare in pieno la sua situazione, e soprattutto impedendogli di trasferire responsabilità a destra e a manca, compreso colui che consiglia.
Ecco che aiutare qualcuno significa sostenere l’esperienza della sua vergogna, della sua scontentezza, della sua incapacità di essere felice, della sua lotta contro la depressione, della sua condizione di vita, con l’accettazione consapevole di ciò che è.
Lo capisco, non è per niente facile stare nel proprio disagio. Ma non farlo significa rinforzare i conflitti interiori e imbrigliare energie.
Per risolvere il conflitto si deve smettere di combattere con il proprio ‘sintomo’, per cominciare a viverlo, per integrare l’esperienza dolorosa e utilizzare l’energia che si libera per il cambiamento.
Accettare i sentimenti negativi, farli propri, viverli, soffrirli non è un comandamento della religione o della morale, ma un comandamento della ragione.
Non è possibile far sparire i sentimenti. Ce ne possiamo allontanare con il pensiero, ma alla fine perdiamo il contatto con noi stessi e con il nostro nucleo.